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parte terza | 159 |
Pareva che quel vecchio palazzo che aveva visto gli splendori di Carlo III, le follìe di Maria Carolina, le feste militari di Murat, le feste popolari di Ferdinando I, rinascesse per un’ora al lusso degli abiti serici, al profumo delle carni giovani e belle, al folgorìo delle gemme fredde, alla pompa di una corte ricchissima e stravagante. Quella festa tutta popolare, più che popolare, contadinesca, quella festa della terra, delle frutta, dei cereali, degli animali, tutta umile, tutta prosaica, tutta bestiale, pareva una festa raffinata, aristocratica, la nascita di un principe ereditario, una cerimonia ufficiale del capodanno.
— È una vittoria per la democrazia insediarsi nella reggia dei tiranni a celebrare la festa rurale — disse l’avvocato Galante, di Cassino, occhio losco, pancia prominente, fronte calva, l’unico socialista della provincia, al cancelliere, monarchico, che se ne scandalizzò.
L’inaugurazione si faceva al primo piano, nel salone dei Farnese, ampio, con quattro finestre sulla facciata. Tra due finestre era il banco ministeriale sopra una piattaforma, coperto da un tappeto di velluto verde orlato d’un gallone d’oro, col campanello, il calamaio, tre bicchieri, la boccia dell’acqua, la zuccariera, apparato minaccioso. Intorno, cinque seggioloni in velluto rosso. Sul piano della sala, facendo gradazione col banco ministeriale, il banco della presidenza, col tappeto grigio e i seggioloni di vecchio cuoio. Poi a destra, a sinistra, dirimpetto, le file delle sedie per gli invitati. Tre file di poltrone per le signore: poi seggiole di paglia per gli uomini.