è un egoista, indifferente a qualunque sofferenza umana. Egli trova modo, da mane a sera, di farmi osservazioni sulle mie fogge di vestire, sui mobili delle mie stanzucce, sugli amici che ricevo, sulle ore che essi restano da me, sulle mie pose di fanciulla fatale. Egli è crudele ogni giorno con me. È arrivato a dirmi cose orribili: che i suoi amici mi dicono troppo stravagante, che la mia condotta è pazza, che io sono la peggiore civetta di questo mondo. Quanto ho pianto, quanto ho spasimato, io, povera vittima che i borghesi crocifiggeranno sempre! Ho chinato il capo senza rispondere. Sono soverchia in casa mia, Caterina. Ho dovuto fare un grande sforzo e pregare Galimberti di diradare le sue visite, che davano all’occhio alla servitù volgare e maldicente, che si burlava di lui. — Povero e caro amico, io ho dovuto immolarti al mondo, proprio nel momento in cui tu più avevi bisogno della mia parola consolatrice, quando con la più crudele ingiustizia ti avevano licenziato dal collegio! — Però, gli scrivo ogni tanto, anche per non dare sospetto. Temo che sia molto avvilito e molto infelice: scrivendogli, io gli mando le più dolci parole che si possano dire. Ma vedi che cosa è stato per me mio padre! In fondo la verità è che io gli rattristo la casa, dove egli vuol ridere e scherzare: la verità, è che lui, a quarantadue anni, è più giovane di me che ne ho venti: la verità è che lui vuol maritarmi per liberarsi della mia presenza: la verità e che — orribile a dirsi — essendo vedovo da quindici anni, egli aspetta l’ora della liberazione, quella del mio matrimonio, per ammogliarsi di nuovo.