Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
parte seconda | 147 |
canto a me vi è un essere sofferente, malaticcio, condannato da una fatalità fisiologica a una morte crudele, colpito da un feroce atavismo che gli avvelena il sangue. Egli non ha lunga vita: lo susurrano fra loro i medici. Il Cardarelli lo ha detto brutalmente: può vivere qualche tempo ma con molte precauzioni. Ma morirà di quella morte: è scritto. Ha il germe della tisi: morirà tisico. Tu sai chi è: è Alberto Sanna, mio cugino. Egli s’illude sul suo stato, ma noi sappiamo tutti la triste verità. Non può vivere.
«Ora immagina quale vita sia quella del povero Alberto. È molto ricco, ma è solo, affidato a cure mercenarie, in mano a servi che non lo amano e lo trascurano. Egli è sempre tormentato dal desiderio di divertirsi, e non può, non deve: gli amici lo consigliano male, non badano alla sua salute gli fanno perdere, in una notte vegliata, un mese di precauzioni. Quando cade ammalato, è solo, mal assistito, si dispera: è una pietà, mia dolce Caterina. Appena sta un po’ meglio, si alza di letto, si imbacucca e viene da me, che sono la sua consolatrice. Egli è triste perchè ammalato, perchè non ha nessuno che lo ami, perchè non avrà mai una famiglia, perchè gli sono proibite tutte le gioie, perchè al banchetto della vita egli appare solo un momento e scompare — come il tisico di Gilbert. Gli manca un’anima, gli manca un amore, gli manca una creatura: colei che prenda cura di lui, che lo ami, che si sacrifichi, che gli renda, se non felici, soavi questi pochi anni di esistenza che gli rimangono, egli non l’ha. Si volta intorno e si vede solitario, perduto