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parte seconda | 129 |
disfatta del dopopranzo, da quel senso di beatitudine tenera che gli metteva dell’affetto nella voce.
— Io mi chiamo Andrea — susurrò.
— Lo so — disse lei, duramente.
— Ditemi Andrea. Non dite Caterina, forse? Io e Caterina siamo la stessa cosa.
— Non per me.
— Capisco. Ma se Caterina vi è tanto amica, vi posso essere amico anch’io. Mi proibite di diventarlo?
— ... Forse l’amicizia non esiste.
— Sì, ch’esiste. Non siate pessimista. Sentite, cara signorina, che ve lo dica piano in un orecchio.
Ella si curvò sino a toccargli le labbra con la guancia. Egli le disse:
— Qui siamo in due a volervi bene. Credetelo... Lucia si riversò indietro, abbandonò il capo sulla spalliera, chiuse gli occhi.
— Ma è dunque un’altra donna, col collo così bianco e così palpitante nel riccio di trina? — pensava Andrea.
— Andrea, Andrea — chiamò dalla camera Caterina.
Egli si scosse, crollò le spalle come se le scaricasse di un peso, dette un’occhiata a Lucia che pensava, chiusi gli occhi, e andò di là. Per qualche tempo parlottarono a bassa voce marito e moglie, discutendo. Di botto, ridendo silenziosamente, egli afferrò sua moglie e la baciò nell’orecchio. Caterina si schermì, accennandogli a Giuditta che si metteva il cappello innanzi allo specchio e che vedeva tutto.
— Tutto dipende da lei — mormorava lui, rientrando in salotto. — Signorina Lucia, dormite?