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116 | fantasia |
— Se mi rimproverate — disse lui, ridendo — non mi siedo neppure. Buongiorno, Alberto, buongiorno, Galimberti.
E la stanza parve piena di quel forte uomo, del suo riso espansivo, della sua bella salute; Galimberti, storto, basso, giallastro: Sanna, meschino, esile, tisicuzzo, pallido: Lucia, snella, magra, tutta cascante, sembravano una miseria umana. Galimberti si raggricchiava nella sua poltroncina, curvando il testone d’idrocefalo; Alberto Sanna contemplava Andrea da sotto in su, con un’ammirazione profonda, facendosi più piccino, come un essere debole che si ripara all’ombra protettrice del gagliardo; Lucia, invece, si distendeva sopra la poltroncina, avvolta come un serpente flessuoso in quella stoffa turca, mostrando una babbuccia di velluto ricamata in oro, avendo quel suo sguardo affinato fra le palpebre, che pare distacchi una scintilla all’angolo dell’occhio. Ma tutti tre, in apparenza, erano dominati, soggiogati da quella umanità fisica, così sviluppata, così fiorente, nel suo largo e perfetto svolgimento. La stanza era sicuramente diventata più angusta, i mobili parevano più piccini, umiliati di fronte a quella grossezza; tutte le minute cianfrusaglie, le cosette strane di cui Lucia amava circondarsi, erano assorbite, scomparse. Andrea sedeva appoggiando le spalle al pianoforte — e sembrava che lo nascondesse. Egli scuoteva la testa riccioluta, mettendo un’aria di forza in quella stanza tutta morbosa: egli rideva un po’ troppo vivamente turbando il silenzio malinconico di quell’ambiente in cui non si osava parlare che a voce sommessa.