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— Questo sì: tu mi dirai quelle bellissime cose che pensi, che mi sbalordiscono, e che rapiscono d’ammirazione quelli che ti ascoltano. Dove le trovi, tu, Lucia, quelle strane cose?

— Nel paese dei sogni — diss’ella, sorridendo con indulgenza.

— Vedi, vedi, il paese dei sogni lo hai inventato tu! Le dovresti scrivere queste cose, Lucia. Saresti una scrittrice...

— A che serve? Io non ho vanità. Non è vero, professore, che non ho mai avuto vanità?

— Mai. Una modestia eccessiva congiunta a un merito...

— Basta, non vi chieggo complimenti... Pensavo, stanotte: ho avuto l’insonnia solita...

— Spero che non avrai preso il cloralio?

— Per contentarti, non l’ho preso. Ho sopportato l’insonnia per te.

— Grazie, bella mia.

Si guardarono come due innamorati soddisfatti. Galimberti stava ad ascoltare, fissando la cornice di felpa rossa dov’era il ritratto di Caterina.

— Me ne debbo andare, me ne debbo andare — pensava.

Si sentiva inchiodato sulla poltroncina come se non avesse più forza per andarsene: era infelice, poiché s’era accorto che uno dei suoi stivali era infangato. Gli sembrava che Lucia guardasse sempre quello stivale. Non osava trarlo indietro e ci si crucciava.

— Dunque ho pensato stanotte, fra tante altre cose, che tu, Alberto, avresti bisogno di una donna.