l’Avemaria sino al frutto del tuo ventre, Gesù: le maestre e le educande ripigliavano, seguitando. La cappella si empiva di frastuono, poiché a ogni ripresa di preghiera le educande entravano con un grande slancio di voce, che pareva effusione di cuori ardenti: le bambine, invece, si divertivano a quel giuoco, e mentre la direttrice diceva, solitaria, la sua parte, esse misuravano il tempo per entrare tutte insieme, come uno scoppio. Ridevano pianamente, urtandosi. Qualcuna si chinava sulla spalliera della sedia che aveva davanti, fingendo di raccogliersi, ma strappando i capelli alla compagna che stava dinanzi. Si udiva un ticchettìo di rosari smossi sotto i grembiuli: ci scherzavano. Le grandi, indietro, serbavano un contegno esemplare, sotto l’occhio acuto della direttrice che le vigilava. Ella vedeva benissimo che Carolina Pentasuglia aveva un garofano all’occhiello, quando nel giardino del Collegio non crescevano garofani: che sul petto, sotto la mussolina dell’abito di Ginevra Avigliana, si disegnava un quadratino, di carta, evidentemente: che Artemisia Minichini, dai capelli corti e dal mento virile, aveva, come al solito, una gamba accavalcata sull’altra, per disprezzo della religione: vedeva e notava. Lucia Altimare, gli occhi spalancati e fissi ad un cero, la bocca stirata a destra, pregava, scossa ogni tanto da sussulti nervosi: accanto a lei Caterina Spaccapietra pregava tranquillamente, l’occhio senza sguardo, il volto immobile e senza espressione. La direttrice ripeteva le parole dell’Avemaria senza pensare al loro senso, distratta, preoccupata, sdebitandosi rapidamente della sua preghiera.