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gliava solo il vecchio padre: quando il medico gli aveva detto che Silvia era perduta e con lei il bambino, il suo egoismo aveva ricevuto un colpo formidabile, qualche cosa di aspro gli ricercò il cuore ed era il rimorso. Egli impallidiva e tremava pensando per quanto tempo aveva trascurata la figlia, egli si chiedeva la misura del dolore che le aveva inflitto con la sua indifferenza; non le aveva mai dato un bacio, mai detto una parola buona, era stato per lei un estraneo. Ora essa, avvelenata da quella crudele noncuranza, moriva.

Silvia dormiva di un sonno affannoso ed irregolare, coi lineamenti contratti, col viso diminuito, quasi divorato dalla lotta combattuta; balbettava ancora qualche frase del suo delirio. Troppo tardi era venuta la vita, troppo tardi ella era stata madre — il suo organismo già vecchio, già disseccato, si era infranto in quella pruova.

— Papà, lasciamelo vedere ancora — disse lei con voce fioca, risvegliandosi.

Il padre si scosse, prese dalla culla il piccino e glielo portò. Era una creaturina debole e fragile dagli occhi semispenti, dalle manine gelate. Silvia mise un bacio leggiero sulla piccola fronte.

— Papà! — chiamò dopo un momento di silenzio la figliuola.

— Silvia?

— Dimmi: la mamma, la mamma mia era molto dispiacente di morire?

— Non funestarti con queste idee, figlia mia...

— Dimmelo, papà, te ne prego. Era molto dispiacente di morire?