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fronte a suo padre, fu chiamata signora, firmò le lettere col cognome datole dal giudice; e fu tutto. Dimenticavo il marito.

Ma il marito rassomigliava troppo agli zii, ai cugini, al padre, alla città, alle mura, ai mobili, perchè qualche cangiamento avvenisse nello spirito di Silvia. Era una persona di più a cui doveva rispetto ed obbedienza, erano nuovi doveri, ma aridi e secchi come tutti gli altri; il giudice non era punto espansivo, e la freddezza della moglie gli piaceva, prendendola per un eccesso di serietà. Quindi, esauriti gli episodi delle formalità matrimoniali, Silvia riprese il corso della vita abituale, camminando a passi cheti e moderati, dritta nelle pieghe rigide, quasi monacali, del suo abito nero, colla mano sull’anello delle chiavi, perchè queste non tintinnissero, parlando poco, sorridendo molto meno, pensando pochissimo, immaginando nulla ed aspettando la morte senza impazienza.

Era questa la miserabile creatura seduta dietro i vetri del balcone, nel puro pomeriggio estivo; la povera ed infelice creatura che non poteva comprendere la bellezza di quell’ora. A poco a poco, nel tramonto, l’orizzonte s’infiammava d’una luce corallina; sull’estremo lembo del cielo, una sbarra di nuvole, lunga, stretta somigliava ad un nastro d’arancio violetto frangiato d’oro. Poi tutto l’arco del cielo s’incendiò, ma di un incendio lento e dolce; sulle case bigie, oscure, vecchie, si riflesse un chiarore roseo che parve le ringiovanisse; i vetri delle finestre divennero abbaglianti; le banderuole di ferro, agitantisi nel venticello crepuscolare, sembravano