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molto male. Il padre ebbe il tifo, fu in pericolo di vita, la figliuola lo vegliò per dieci notti, gli prestò le cure più minute, senza segno di fatica; ma la premura dolce ed amorosa che consola l’ammalato, il sorriso di affetto, gli occhi umidi e commossi, l’ansia del core che si dipinge sul viso, mancavano in lei. Ai ventun anni soltanto le venne dato il conto della sua dote. Poi nulla più di nuovo avvenne.

Ma Silvia, diventata il riassunto delle consuetudini provinciali, Silvia, l’esempio dell’obbedienza e del dovere, la pallida figura in cui si adombrava quella vita anemica, cretina, inerte, materiale, Silvia non aveva potuto rassegnarsi ad una delle più grandi leggi del paese, il sonno del pomeriggio. Questa infrazione alla regola la crucciava un poco ed aveva tentato di vincere una ripugnanza tutta fisica: dopo serrate le imposte della camera sua, si era spogliata ed aveva chiuso gli occhi nella fissazione di voler dormire; ma le era stato sempre impossibile. Si sentiva soffocare in quella stanza oscura e calda, temeva di cadere in deliquio; le conveniva alzarsi, vestirsi ed andare a passare le ore, solitaria dietro la tendina rialzata del suo balcone. Aveva lottato due mesi, aveva usato tutti i mezzi, aveva sprecato una inesauribile dose di pazienza, ma lo scopo si era allontanato sempre più. Ne aveva parlato al medico, ne aveva chiesto al confessore: le fu detto che era un fenomeno naturale, una inclinazione del suo temperamento; la risposta la persuase ed essa si rassegnò. Quando qualcuno le diceva in aria di profonda meraviglia: — Come, non dormite