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di legno, ella attendeva con pazienza che le ore trascorressero. Ma in quel posto non l’aveva attirata lusinga di gaio o di mesto spettacolo; Silvia non guardava nella strada, non rivolgeva gli occhi all’ultima linea di verde che confinava con l’orizzonte, nè li alzava al cielo crepuscolare: queste cose, come tutte le altre, non la interessavano o punto. Era venuta là per abitudine, senza noia e senza diletto, per la medesima ragione che la faceva alzare alle sei di mattina e coricare alle undici di sera. Da trentadue anni, nel pomeriggio, stava seduta dietro i vetri del balcone — e tutta la sua vita passata era rappresentata da una fredda e indifferente abitudine.

Pure essa era stata bambina, adolescente, giovinetta; la sua parte di sorriso, e di gioia aveva dovuto averla; invece se rivolgeva lo sguardo indietro, sugli anni fuggiti, non iscorgeva che una superficie bigia ed uniforme. Piccina ancora, ricordava le figure severe ed accigliate dei nonni che le mettevano paura, i volti volgari e le voci grossolane degli zii, sempre pronti a sgridarla, la ciera pallida e noncurante di un padre egoista che non la baciava mai. La casa era triste, vecchia, e vi si parlava sotto voce e i mobili antichi, grandi ed angolosi, assumevano nell’ombra forme spaventose; nei quadri dove si contemplavano le battaglie del primo Napoleone, dominava il rosso acceso, come se ancora il sangue vi scorresse; mai altri fanciulli, mai giuochi, mai risa, mai un viso giovane, mai qualcuno che le parlasse della madre, morta troppo presto. La bambina andava a scuola da due zitellone