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278 | dal vero. |
nastri multicolori; giusto un anno e mezzo di arretrato sulla moda. L’ultima infine aveva fatta la felice scelta di una polonese verde-pisello, capace di dare l’emicrania ad una persona di nervi delicati. Tutte quattro erano incipriate di quella grossa cipria che lascia delle macchie bianche, come di gesso; tutte portavano sui capelli nodi di nastro, spilli di chincaglieria, fiori artificiali; tutte erano cariche di perle false, di braccialetti in velluto, di lunghi orecchini; erano soffocate dai loro triplici jabots; portavano guanti troppo corti, con filetti bianchi di dieci anni fa, mezzo sbottonati; una li aveva nuovi fiammanti, color burro, troppo stretti, e se li guardava con grande compiacenza, rimanendo immobile per timore d’insudiciarli.
Dietro, due vecchie; capelli grigi, treccia finta tutta nera, figure arcigne, labbra calcolatrici, catena di oro al collo, spillo col ritratto del coniuge — una bambina. In terza linea il soprabitone nuovo di don Giovambattista Fasanaro, negoziante di pannine e segretario della sua congregazione, con dentro la rispettabile persona del proprietario; insieme tre giovanotti: il primo commesso del negozio, il figlio del droghiere ed il nipote dell’orefice. Tutti tre serrati nel soprabito delle domeniche, rossi nei colletti troppo alti e troppo duri, fieri della dritta scriminatura, del fiore che adornava i rispettivi occhielli; tutti tre pretendenti delle foglie di don Giovambattista. In tutto, dunque, undici: una borghesia grassa, grossa, beatamente cretina, piena del suo merito, piena di disprezzo per quello che è fine, per quello che è artistico; un palco borghese che fioriva alla luce del gas, nel teatro Sannazaro.