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idilio di pulcinella. 257

tatori del teatrino bastava ed era soverchio: come attore, Gaetano era svelto, pieno di vita, aveva una voce gradevole e conosceva l’arte di modularla. Il padre gli morì presto ed esso, che era figlio unico, gli subentrò come nei regni costituzionali; recitava bene, era allegro per natura, era giovane; piacque, divenne il beniamino del pubblico. Il suo mestiere non gli dispiaceva, anzi e’ lo faceva con un certo trasporto: nel suo cervello non nascevano le idee dell’arte, la sua missione, la vocazione, la fibra artistica, l’interpretazione, la scuola vecchia, la nuova e simili formole che affliggono gli altri artisti drammatici — niente di tutto questo. Sibbene, così alla grossa, egli comprendeva che quegli spettatori della platea e del lubbione erano popolo, quel popolo che soffre, che lavora, che stenta e che quando può disporre di pochi soldi, va al teatro per dimenticare nel riso i guai della vita — e nel suo cuore di popolano, si consolava di dover essere lui ad alleviare, a sollevare, a rallegrare il suo prossimo. Quando si metteva la maschera e stringeva la vagina del suo camiciotto, si sentiva il cuore leggero, diventava gaio per la gaiezza che avrebbe data altrui; quando una intiera platea scoppiava in una risata omerica, egli gongolava dal contento, come chi abbia fatto una buona azione.

Per lo più, prima che cominciasse la rappresentazione, usava di metter l’occhio al buco del sipario ad osservare attentamente il suo pubblico; notava tutti i volti gravi, i tristi e se ne ritornava fra le quinte, fregandosi le mani, sorridendo e mormorando fra sè: «Vedremo, vedremo, se ci potrete resistere.»