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un giornalista che era andato al San Carlo con la moglie; delle sorelle dell’impresario, serotine e gratuite frequentatrici del teatro; di una frotta d’inglesi, vestiti di tela bianca e col velo verde al cappello, ed infine di un giovanotto abbastanza misterioso, solo in un palco, che ascoltava la rappresentazione voltando le spalle al palcoscenico, sbadigliando dietro la mano inguantata: una consegna, era evidente. Nessun occhialino: sarebbe stato ridicolo a tre metri di distanza. Il maestro di orchestra, un disgraziato pagato ad un franco e cinquanta per sera, squadernava sul piccolo leggio la vetusta mazurka, volgendo una occhiata pietosa agli otto professori suoi colleghi, che si godevano una paga giornaliera variabile da settantacinque centesimi ad un franco.

Nel palcoscenico un momento di riposo. Là il caldo era soffocante; non veniva un soffio di aria da nessuna parte; la caratterista, che fingeva una vecchiona ricca e benefica, si era levata dal capo una parrucca a riccioloni maestosi, con suvvi appuntata una cuffia di merletto adorna di nastri e fiori, ed era rimasta con una treccia tonda e brizzolata, perchè la buona donna camminava direttamente sui cinquanta. Donna Carmela, l’amorosa, passeggiava su e giù, facendosi vento col grembiale di seta nera; il suo ventesimo fidanzato — essa aveva combinati e rotti diciannove matrimoni — era corso a prenderle un bicchiere d’acqua gelata con sciroppo di amarena. Pulcinella, seduto sopra alcune vecchie quinte, aveva sollevata la grossa maschera d’incerata nera per respirare un poco meglio e si soffiava