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234 | dal vero. |
comprendo, non comprendo e questo aumenta il mio spavento.
Giorgio non le rispose: pensava. Quasi, interrogando sè stesso, si figurava di soffrire come Clelia.
— Ho sempre pensato una cosa, Giorgio. Ed è che noi tutti, scettici o credenti, uomini dal cuore vergine o giovanotti precoci, cervelli positivi o cuori ammalati, tutti, tutti portiamo in fondo all’anima un pensiero segreto, segreto anche a noi. — È latente, ma ci segue dappertutto, noi lo sentiamo, ne abbiamo la coscienza, ma non sappiamo che sia; è una domanda oscura del destino, è un punto interrogativo gittato all’infinito, è il problema insolubile della vita? Chi sa! Noi ridiamo, scherziamo, piangiamo, viviamo, ma portiamo con noi questa incognita paurosa: ad un tratto, essa ci si presenta continua, evidente, assidua. Ci tormenta, ci tortura, perchè non conosciamo la sua natura, quel che voglia da noi e tremiamo che non sia la nostra felicità la quale si dilegua per la nostra ignoranza! Forse è questa lotta con l’ignoto, con l’inafferrabile, questo combattimento con un potere nascosto, che esprime quella musica.
— Forse — disse solamente Giorgio, diventato serio.
— Forse: è la nostra parola. Siamo ciechi e quando apriamo gli occhi, è per vedere il sole che fugge, è per ricadere nella notte. Meglio dormire....
E rivolse la testa, quasi infastidita. Gli orecchini di brillanti, smossi, si rifransero vivacemente; la luna invadeva quietamente l’angolo oscuro dove stava Giorgio, ma egli non si accorgeva di nulla.