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230 | dal vero. |
nuava a mandare un raggio fulgidissimo che pareva fuoco liquido; nell’angolo oscuro formato dalla muraglia, il sigaro di Giorgio che bruciava come un piccolo vulcano in permanenza. Perchè Giorgio era uno spirito forte e si sentiva pieno di disprezzo per le serate estive, per le fantasticherie, le poesie ed il resto, cose tutte che servono a spogliare il cuore della sua corazza di indifferenza, ed attenuano il più grande coraggio di uomo di spirito. Come si può essere ironico, scettico, realista in quella soave morbidezza che vi penetra per tutti i pori, e distende i nervi troppo tesi, e cambia i neri pensieri in idee rosee, vaghe e sfumate? Per questo egli si era seduto nell’angolo non ancora invaso dalla luna, con un sospetto nell’anima, pieno di diffidenza: avrebbe voluto protestare ed accese il suo sigaro, senza rivolgere una sola parola a Clelia. Essa sognava, la grande, la eterna sognatrice; pareva che avesse tutto dimenticato, anche la presenza di lui, perchè non alzava neppure gli occhi per guardarlo. — Non si moveva, non pronunziava una sillaba e sembrava una bianca statua di Dea, che attenda immobile un Pigmalione che la desti.
Ad un tratto, in quel grande silenzio, arrivò una nota squillante e vibrata, come se una mano decisa si fosse posata sopra una tastiera lontana: Clelia si scosse, aprì gli occhi, stette un istante in ascolto, poi dirigendosi a Giorgio, gli disse a voce bassa:
— Eccola.
— Chi?
— Sentirete.
Infatti la incognita suonatrice toccò due o tre tasti,