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itterici aranci, si vide un po’ di fragole; vederle solo però, che si potevano contare sulle dieci dita, Nè Augusto si ribellò al nuovo ordine di cose, anzi pacificamente prese il caffè, pose i giornali sotto il braccio e andò a leggerli nello studiolo. Pure, malgrado le attrattive più o meno autentiche delle parti letterarie, l’amico era distratto e poco capiva di quello che leggeva: dalla strada gli giungevano troppe voci. Era quella cantilena lunga, dolce e lamentosa del ragazzo che, deposto per terra il suo canestro, dice alla gente i meriti dei limoni che smercia; il grido sottile ed acuto della fanciulla che vende le pianticine di rose ed i garofani ancora in bocciuolo; la voce stentorea degli strilloni che annunziano essere uscita la tal cosa e la tal’altra e la tal’altra ancora.

Ed il crepuscolo scendeva lento e dolce come mai non era stato, scendeva senza la tetra malinconia dei brevi giorni invernali; nella strada il movimento cresceva invece di diminuire, le campane si chiamavano e si rispondevano allegramente, perchè era l’epoca delle feste gaie: Santa Matilde, una buona regina che si mortificava lietamente, mettendo dei sassolini negli stivaletti da ballo. Santa Matilde, cioè il genetliaco del re; San Giuseppe, grande e buon protettore delle ciambelle bionde e delle fanciulle bionde o brune; l’Annunciata, una festa poetica e misteriosa; Pasqua, l’idea della nuova nascita che combatte la morte, la migliore delle feste, e nella luce rosea, dorata, infiammata, violetta, grigia, azzurro-cupa del tramonto e della sera, Augusto sorrideva allo scampanío giocondo, sorrideva ai lumi che