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lì, su quel bianco, faceva allegria: erano viole-ciocche di quelle rosse e di quelle gialle, poi erba-menta, cedratina, maggiorana ed un ramoscello di ruta: Luisella, una bruna e forte Nausicaa del Vomere, aveva portato la biancheria e i fiori. Allora ad Augusto venne in mente la sua meschina, impolverata ed ammalata flora del salottino — ed andatovi, si fece a scostare il musco secco e trasportò le pianticelle fuori al balcone; vi si trattenne un minuto a guardare l’animazione della strada, poi rientrò perchè doveva mettersi al lavoro.

Tutto era pronto sullo scrittoio, val dire l’occorrente come nelle commedie: la carta candida, rasata, aveva un’aria ingenuamente civettuola, l’inchiostro era nero di pensieri, una puntina nuova e lucida brillava nella penna favorita: erano soddisfatte tutte le piccole superstizioni artistiche. Augusto alzò gli occhi sul calendario, lesse un proverbio rovinato e la nota di un pranzo immaginario ed inutile; scrisse una frase, rialzò gli occhi e si pose a guardare il ritratto..... un ritratto appiccato al muro; quando li riabbassò, la frase non andava più bene e la cancellò. Macchinalmente si alzò, andò fuori al balcone, vi stette un momento e tornò a sedere; ma si trovò seduto di traverso e pel balcone aperto si vedeva un quadrato di cielo sereno, un muro grigiastro illuminato dal sole ed il campanile dello Spirito Santo, i cui mattoni di maiolica gialla e bleue scintillavano; in fondo alla camera la serva aveva spalancato l’armadio, ne tirava fuori certi soprabiti e li spolverava. Insomma Augusto non poteva lavorare, non poteva, senza saperne il perchè; cedeva