timido,
di cui si presentiva la dolcezza sotto la carezza della mano e il
tocco delle labbra; il volto magro, lunghetto, malaticcio, di un
pallore finissimo, quasi trasparente come un cereo; socchiusi i bruni
occhi sotto la frangia dorata delle palpebre, sottolineati da quelle
occhiaie nero-violacee che fanno pena al cuore; sottili, vivide,
aride, quasi abbruciate le labbra; il collo, le spalle, le braccia
scarne e consumate; abbandonata e languente tutta la persona:
dappertutto le traccie della febbre e del decadimento. Pure era
vestita con quell’arte speciale della donna che tenta tutt’i mezzi per
nascondere la verità: l’abito di raso bianco serviva ad ingrandirne
alquanto la figura; sul collo cadevano ad onde i bei capelli per
celarne la magrezza; sulle spalle denudate si aggruppavano fiotti di
velo bianco e di merletti, conoscendo ella il valore immenso delle
trasparenze che correggono i contorni meschini, mettendoli quasi in
una nuvola; la manica scendeva sino al gomito e lo avambraccio,
piccolo come quello di una fanciullina, era ricoperto di braccialetti;
le affusolate dita delle manine erano zeppe di anelli, quasi ad
ingannare la gente sulla loro apparenza; tutta la persona rimaneva in
una penombra amica e discreta, in un atteggiamento stanco. Ma la
stessa cura che ella prendeva per dissimulare il suo stato, muoveva
maggiormente la pietà e non illudeva nessuno: quella donna era
ammalata; ammalata d’amore, di quella lenta febbre che non ha posa,
che non ha requie, che infiamma il cuore ed agghiaccia le mani, che
divora il sangue e fa impallidire per sempre il viso, che mina il
corpo sordamente,