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172 | dal vero. |
pie e foderate, l’eco di quel chiasso si fa un cammino sino a colui che legge; egli si distrae, presta l’orecchio e sorride. Invano d’attorno la temperatura è piacevole, invano il tappeto è morbido, invano la luce è quieta, invano il libro dispiega l’attrazione della sua carta giallina, dei suoi caratterini affusolati, dei suoi fregi capricciosi e dei suoi versi idem: la gran voce della moltitudine è insistente, sale come un appello, risuona come una vigorosa chiamata. Allora colui che legge è preso dalla nostalgìa della strada, della nebbia, dell’agitazione; prova un desiderio aspro di mettersi in quel tumulto, di godere quello spettacolo, di portarvi la sua parte, di sentirsi piccolo, annullato, assorbito: egli non lotta più, cede; e con un soffio gigantesco, la strada vince la cameretta.
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Sulle piazze, nelle vie, gittate, profuse tutte le ricchezze vegetali ed animali. Qui è il trionfo della carne: sono le file dei polli sospesi per le gambe, dalla pelle gialletta, soda, leggermente punteggiata di bruno, venata di un azzurro pallido: sono i tacchini dalle forme grasse e rotonde, dondolantisi gravemente al venticello caldo, con la serietà di quando erano vivi. La luce incerta delle fiaccole profila stranamente le masse enormi della carne di vitello, carne rossa, sanguinolenta, dalla fibra lunga e piena di forza, dall’osso levigato, lucido, senza una mac-