Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
168 | dal vero. |
che doveva allargare, ingrandire, gonfiare, ricamare con tutti i lenocinii della penna — mentre aveva nel cervello la vastissima tela del suo libro! Come erano infedeli, piccole, pallide, incomplete le figure delle sue novelle, di fronte alla eroina del suo romanzo: che aveva egli di comune con quelle figure? Non le aveva amate, non lo amavano, non gli appartenevano — gli avevano procurato dieci lire con cui aveva comperato un paio di scarpe: ecco tutto, Allora il pubblico, presentendo la fine di quell’ingegno, lo abbandonò; era un limone spremuto da una mano gigantesca, era un cervello distrutto, cellula per cellula, in uno spaventoso ingranaggio. Che poteva importare al pubblico di Mario? Non vi erano forse altri limoni da spremere, altri cervelli da esaurire? La sua opera non fu più ricercata, i giornali rifiutarono i suoi articoli; egli si era suicidato giorno per giorno, ora per ora; non trovava più concetti, non trovava più parole, si ripeteva orribilmente, scendeva alle frasi comuni, l’originalità era morta. Provava qualche volta la sensazione di avere nella testa un grosso pezzo di sughero. Si rassegnò, non trovando più in sè stesso alcuna rivolta, nè una scintilla in quel mucchio di ceneri: discese sino a fare il reporter, pure di guadagnare qualche cosa. Andava dalla Questura alla Prefettura, di là agli ospedali, interrogava i registri, prendeva delle note sul taccuino, e scriveva quelle graziose cose che incominciano: siamo lieti di annunciare; oppure: informazioni pervenuteci da fonte attendibile....
Passarono vari anni in quella vita macchinale, quasi senza che egli se ne accorgesse. Aveva tanto amato