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la storia di mario. 167

occuparsi d’altro, senza pensiero del domani. Ed in questi sei mesi come si sarebbe vissuti? Morendo? Il padrone di casa doveva essere pagato, si doveva pranzare la mattina e cenare la sera; la madre spesso avea bisogno di medicine, di buon vino, di una serva che le togliesse dalle spalle il grosso delle faccende domestiche. Forse in quei sei mesi il pubblico avrebbe dimenticato il giovane autore, forse egli non avrebbe più trovato un editore, forse il libro non avrebbe trovato neppure un tipografo: come scrivere con la prospettiva della miseria, del freddo e della fame? Si ha un bel dire che le difficoltà spronano il sangue, che il granaio è bello a venti anni; sì, ma non quando con voi soffre la vecchia madre, non quando si arrossisce di uscire, non avendo un abito decente. Per questo Mario non poteva scrivere il suo libro; per questo si sottometteva ad un lavoro improbo, sciupatore, inutile, inglorioso. Invano egli fantasticava sul suo romanzo, invano egli accumulava idee sopra idee, invano si crucciava dietro al suo ideale: veniva il pensiero aspro del domani e con esso si dileguavano tutte le sue speranze.

Così il suo ingegno decadde lentamente. In quella battaglia continua il suo spirito s’inasprì, svanì la bella fede giovanile, il giudizio si velò d’ingiustizia, Fu acre, bilioso, capriccioso, dubitò di sè, dubitò dell’arte, dubitò di tutto. Fece del mestiere, stanco, spossato, esaurito, senza entusiasmo, senza fede, chiudendo gli occhi per non guardar l’avvenire, sorridendo di scherno a chi ancora lo incoraggiava. Come odiava quel lavoro che faceva, come lo odiava! Come gli sembravano grette e meschine quelle ideucce