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154 | dal vero. |
tera le bruciava le dita come carbone acceso, eppure non la riponeva. Pareva che quelle parole fiammeggiassero, sfiorassero la mano e penetrassero nelle vene; sentiva un gran calore invaderla tutta, giungere al cuore ed al cervello, precipitarle il sangue: sembrava che stesse in pieno meriggio, in una luce splendida ed abbagliante. Nessuna sensazione di dolore, anzi godeva di quel ricco e dolcissimo incendio in cui le si struggeva l’anima. Pensò a Leone, pensò ad Everardo: li amava.
II.
Vi erano delle ore in cui Flavia si sentiva penetrata, circonfusa da una grande soavità, come se voci alte e lontane le cantassero una dolce canzone, come se mani di fanciulli facessero piovere sul suo capo foglie di fiori. Le si risvegliavano istinti vaghi, aspirazioni fluttuanti, indecise; desiderava i colori molli, temperati, dove le mezze tinte si sfumano come una carezza; le piccole stanze dove la temperatura è tiepida come soffio umano, dove i rumori vanno a spegnersi nella lana morbida dei tappeti; le stoffe calde e profumate, dal leggero fruscío, che circondano il corpo come se lo amassero e palpitassero con esso; gli effluvî sottili che cullano i nervi in un dormiveglia delizioso. E sul fondo roseo-azzurro di questi sogni compariva un’ombra leggiera, che poi si disegnava più corretta, si distingueva: era Leone. Bello, nobile, ricco,