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dualismo. | 151 |
fece a Flavia una mezza dichiarazione, che spuntava da un complimento susurrato più che detto. Lì per lì ci risero, se ne scordarono; si rividero, ricominciarono, si lasciarono andare alla china: una parolina furtiva, un’allusione mal celata, un sorriso speciale, un brano di conversazione riannodata ogni tanto, ecco tutto. Eppure amore era quello, amore come essi lo intendevano: cioè, amore fine, leggiero, profumato, sottile, lasciato, ripreso a scoppietti, con un’ombra di gelosia per rinforzarlo, ma niente più che un’ombra; amore palliduccio, ma che continuava a vivere bene, come molte persone pallide.
Bastava alla felicità di Leone che Flavia gli inviasse ogni mattina un bigliettino roseo, con tre righe di un caratterino delicato, dove ci fosse il programma della giornata; bastava che al momento dell’incontro fortuito, ella lo salutasse con quel tale inchino della testa accordato a lui solo; bastava che al teatro lo ricercasse con l’occhialino, che al ballo gli serbasse sempre il primo valzer; che, prima di prendere una grave decisione, come la disposizione di una sala, i colori di un abito, una gita in campagna, egli fosse interrogato in proposito. Pel resto la lasciava libera, non esigeva nulla: egli era guidato sempre dal timore del ridicolo, teneva moltissimo alle apparenze e non voleva far la brutta figura dell’amante geloso. Non si adombrava punto dei numerosi ammiratori che circondavano Flavia, anzi dirò che ne provava una specie di contento; sapeva di essere il prescelto, sapeva che il mondo lo sapeva e questo era sufficiente a rassicurarlo.