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spesso degli svenimenti: chi non si sarebbe commosso davanti ad essa? Infine una sera, una mattina, un’ora qualunque, Gemma alzava i suoi neri occhi in fronte al suo ammiratore, talvolta si degnava di sorridergli, talvolta disprezzarlo; gli porgeva una manina lunga, candida, calda ed allora... allora bisognava inchinarsi, amare, adorare ciecamente quella fragile e bella creatura. Essa no, non amava; pare che non ne avesse la voglia o la forza; ed il sentimento più sviluppato in lei era un pretto egoismo, che le faceva accettare con una riconoscenza passiva tutte le premure, tutti gli omaggi, tutti gli affetti. Quando qualcuno la metteva sul soggetto dell’amore, essa scuoteva il capo con aria triste, dicendo: «Sto sempre così male, così male; come posso pensarci?» E nessuno osava più proseguire.

Andrea non gliene parlava mai; anzi egli si stimava molto felice che Gemma gli concedesse il solo permesso di amarla. Perchè era nella larga ed esuberante natura del giovane il bisogno d’innamorarsi, di voler bene a qualche cosa di piccolo e di delicato, di proteggere qualche cosa di debole; in lui ci era un po’ del cavaliere errante, un po’ del fanciullone, un po’ dell’artista. Figuratevi un giovanotto alto, robusto, quasi un colosso, con un paio di spalle erculee, un collo di toro ed una testa energica, dalle linee nettamente accusate: una salute a tutta prova. Faceva lunghissime tappe a piedi, in cerca di un problematico tordo o di una volpe incognita e dopo molte ore di cammino ritornava a casa senza l’ombra della stanchezza; montava a cavallo per andar