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trenta per cento 299

suggelli, scendevano crollando il capo ironicamente: molti in carrozzella come pazzi, andavano dal questore al procuratore del re, da costui al presidente del tribunale di commercio, aspettavano ore intiere, nelle anticamere popolate di facce simili alle loro, entravano infine, e malgrado la naturale freddezza del ricevimento, si sfogavano in parole amare contro Napoli e i napoletani. Pazientemente le autorità li ascoltavano, dicevano loro che non vi era nulla da fare, per il momento, che bisognava aspettare il rapporto dei periti o quello dei sindaci del fallimento. E i provinciali avevano l’aria di crederci, a queste parole che erano la stessa verità, ma non ci credevano, non ci credevano, uscivano ghignando, sentendo che vi era una trama per rimandarli al paese, loro, provinciali, truffati e gabbati.

Infine le ombre della sera scesero sopra Napoli e lentamente la folla si andò disperdendo: erano come dolorosi fantasmi che sparivano a malincuore, portando seco tutto il peso della propria sciagura, temendo più di tutti l’ora della rientrata a casa, l’ora del comune dolore, l’ora del rimorso. Napoli parve morta, in quella prima notte, dopo il disastro. Il teatro San Carlo e il Giardino d’inverno tennero chiuse le loro porte: tanto, nessuno ci sarebbe andato. I caffè rimasero deserti. E intanto una quantità di ombre solitarie si aggiravano nelle strade più remote, sino a tarda notte: erano tutti