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vano frenarsi e piangevano, lì, nella strada, in un cantuccio di strada, alcune a grosse lacrime silenziose che si disfacevano sulle guance, altre a scoppi di calde lagrime fluenti, nervosamente disperate, come sono i bambini, nei loro grandi dolori. E quel pianto continuo, incessante, che finiva solo in un angolo per ricominciare in un altro, quel pianto di donne desolate, piangenti tutte le loro lacrime sulla rovina di ogni fortuna, di ogni economia, di ogni speranza, quel pianto femminile, in pubblico, nella strada, per le scale, nei portoni, un pianto a cui nessuno sa resistere, era la nota acuta della mattinata lugubre di gennaio.

Ma la scena cambiava di aspetto, quando, finite le operazioni di perquisizione, di sequestro, di apposizione, di suggelli, scendevano per le scale gli ispettori, i delegati, le guardie, in uniforme o travestite, portandosi via i libri, i registri e portando in arresto i banchieri, gli impiegati, i pochi collettori che avevano avuto l’imprudenza o l’impudenza di presentarsi ancora. Allora, a quella specie di lento convoglio funebre, a quel trasporto di cose e di uomini, la folla maschile e femminile sentiva bene che tutto era finito, che tutto era perduto, che non avrebbe mai più riavuto il suo denaro. Un gran clamore fatto d’imprecazioni di lamenti, di urli, di truci bestemmie di pianti muliebri, un clamore, dove mettevano il loro strillo disperato anche i ragazzi tenuti nelle braccia ma-