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— Povera cara, — fece lui, prendendole pietosamente una mano e trattenendola fra le sue.

Ella arrossì, come una fanciulla al suo primo colloquio d’amore. E trangosciata, trasalendo al pensiero dell’orribile avvenire che l’aspettava, sentendo la sua vita legata per sempre a quella di un furfante, sentendo il disonore che la colpiva in faccia, si levò, risoluta:

— Vado, — disse a Paolo Collemagno, guardandolo francamente negli occhi. — Vado a quest’ultimo dovere. Ma prima, Paolo, lasciate che ve lo dica: il mio cuore è umiliato dinanzi alla vostra grandezza d’animo. Siete così forte, saggio, buono, misericordioso, che io di fronte a voi mi sento sciocca, misera, vile. Io vi ho tormentato, — soggiunse, con la voce tremante di emozione, — e non ero degna di darvi un sol pensiero di pena. Perdonatemi, ve ne prego. Ditemi che mi perdonate.

— Oh cara, cara, non dite questo... — mormorò lui, con voce semispenta.

— Sì, sì, non ero degna. Sono una creatura debole e meschina. Vi ho fatto soffrire. Perdonatemi. Non posso andarmene di qui, senza il vostro perdono.

— Dio vi benedica, anima cara, — disse lui, solennemente toccandole la fronte, — per il bene che mi avete fatto.

E camminarono di nuovo insieme, accanto, senza