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254 | trenta per cento |
bombe, dai balconi cadevano le terziole e i tricche-tracche, per risposta; ogni finestra aveva il suo fuoco di bengala. Gruppi di monelli, dopo avere dato fuoco a una botta, fuggivano in un angolo, gridando. Sulle terrazze degli ultimi piani uscivano i buoni borghesi e sparavano in aria il loro fucile carico a polvere: e queste salve erano regolari, il tempo di ricaricare il fucile e di uscire sulla terrazza. Le donne, un po’ sgomentate, un po’ allegre si rifugiavano nei portoni; i cavalli delle carrozze si rifiutavano di circolare; i cocchieri si ritiravano filosoficamente alla stalla. Rumori sordi e rumori gravi, scoppi aspettati o scoppi improvvisati, vicini e lontani, sulla propria testa o alle spalle, e un puzzo acuto di carta bruciata, di polvere bruciata, un fumo che faceva tossire i pochi e coraggiosi viandanti.
— Sparate, sparate! — gridavano i venditori dello spariatorio, avendo rifornito le loro vuote bottegucce.
Allo dieci di sera, certe piazze al Mercato, agli Orefici, a Santa Maria la Nuova, a Montecalvario, alle Baracche, parevano campi di battaglia: ventiquattro tra giovanotti e monelli erano andati all’ospedale dei feriti, ai Pellegrini, con le mani arse, le faccie squarciate, le dita asportate. Ma non finiva il fuoco di moschetteria, tutta Napoli era illuminata da quei lumi colorati, da quei razzi volanti, da quelle fontanine di fuoco. Era impossibile