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trenta per cento 227


— A rivederci.

E restò sola, di nuovo. Ora l’asprezza delle sue pene si era perfettamente attutita. Le parea senza dolore, di aver sopportato l’acuto spavento di un naufragio, di aver sentito l’orribile disperazione del perdersi, di aver provata la sensazione mortale dell’onda che le passava sul capo, sommergendola. Ma adesso, l’orrendo minuto era passato. Era sommersa. Le parea di stare distesa in fondo all’immenso mare, sull’arena e sull’alghe, mollemente assopita, nella stanchezza invincibile che vien dopo una di queste lotte. Le pareva di non potersi salvare mai più, annegata, finita, nella suprema inazione della rovina, con mille atmosfere d’acqua che le pesavano sul corpo e sul capo. Che poteva più fare? Era sommersa. La fatalità, l’aveva vinta: tutti avevano rappresentato contro lei la fatalità. Era stata una debole donna, vinta, prima di combattere: e dagli acuti strazii della suprema ora mortale, le era rimasta solamente una malinconia di rimpianto, per quanto aveva perduto, intorno a sè e in sè stessa. Macchinalmente, come un fantasma, avvolta nella vestaglia di lana marrone che era stretta alla cintura da un cingolo, col bianco volto delicato che emergeva da quelle tinte oscure, ella si recò a un balcone della sua stanza da letto che dava sul giardino di palazzo Cariati. A una finestra a muro di fianco, al terzo piano, dietro i cristalli, stava il fido volto amoroso