tica, come si dice in linguaggio burocratico, aveva cercato di un amico, un napoletano impiegato alla Banca Nazionale. Non conoscendone l’indirizzo, timido, sopraffatto dalla bellezza e dall’animazione delle vie di Firenze, era andato a cercarlo alla Banca stessa. E tutta la solenne impressione avuta da quei grandi saloni chiari, nitidi e riscaldati dai caloriferi, da quel grande silenzio dove il passo dei frequentatori si faceva cauto, da quelle profonde cortine di reps verde, da quei tavoloni neri, lustri, massicci, da quel lusso di stucchi o di marmi, legni costosi e pesanti, da tutta quella severità, da quella maestà medesima della Banca, gli ritornò. Dietro il grande cancello di legno in un salone, il suo amico gli era apparso fra tanti impiegati che lavoravano, dietro il cancello, seduti sopra certe poltrone alte, scrivendo in immensi registri, lentamente silenziosamente, mettendosi ogni tanto la penna dietro l’orecchio, per verificare in un’altra pagina del registro, una cifra. E dietro il grande cancello era tutta una serie di scaffali profondi, di armadii, che arrivavano al soffitto, di scrivanie larghe e alte, innanzi alle quali lavoravano i taciturni impiegati. Egli era rimasto profondamente colpito e aveva parlato sottovoce al suo amico, dandogli un appuntamento per la sera, per pranzare assieme prima di partire, ma con un po’ di confusione, tanto il suo amico gli pareva ingrandito, poichè era una ruota di quell’ingranaggio