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190 trenta per cento

scale della Scuola Normale, umide e scure, in quella mattina di fine novembre. Nervoso come era, in quel suo malaticcio temperamento di uomo difforme, ora sembrava che il portafoglio nero, con le settecento lire, gli pesasse enormemente sul petto, come un pezzo di piombo. Certo avrebbe fatta una cattiva lezione di storia, egli che era così laborioso, così coscienzoso, che prendeva molto sul serio quel suo incarico tanto malamente retribuito. Nella sala della Direzione, umida, scura e polverosa, come le altre sale, vide il professore di letteratura, un pretonzolo barese grasso e piccolo, parlottare vivamente col direttore della Scuola, un prete lungo lungo, magro, piemontese. Era una fissazione o anche lì dentro aveva inteso sibilare il nome di Scilla, il pericoloso nome di uno scoglio fatale? Passò avanti, salutando, senza fermarsi, poichè sapeva di non essere nè ricercato, nè amato. Era un’allucinazione, o in quei discorsetti sottovoce, fra le alunne distratte che non ponevano mente alla lezione, in quei bigliettini passati da banco a banco e che erano letti, sorridendo, ridacchiando, cercando di reprimere il riso, era un’allucinazione, o qualche cosa che riguardava la banca Ruffo-Scilla agitava quelle ragazze?

Erano esterne, venivano dalle loro case alle otto della mattina, e, certo, varie di loro, in casa, nella strada, nelle visite, avevano udito dire. Invano egli pregava che si facesse silenzio, ora con cortesia,