la scatoletta dei compassi, disordinatamente, come se fossero lì lì per cadere, portava il colletto bianco alla moschettiera, di traverso, e il cappello un po’ indietro. Assorte come erano, nella stanchezza e nel desiderio di tornare a casa, per prender cibo, esse attraversarono la piazza in quel momento di universale raccoglimento, dopo l’annunzio dell’estrazione, senza accorgersi di nulla: e salirono faticosamente le scale, pronunziando qualche breve parola, bussando più volte, col manico dell’ombrellino, alla porta di casa, poichè Tommasina, immersa in un profondo torpore, non sentiva. Ella veniva ad aprire un po’ confusa, avendo lasciato di dire il rosario, quasi non riconoscendo le padrone, pel sonno che annebbiava ancora la sua vista. Ma in due minuti, tutto fu pronto: e silenziosamente, le due donne si misero a mangiare, sulla tavola rotonda del così detto salotto. Parlavano pochissimo: poichè la fanciulla aveva sempre un solidissimo appetito e mangiava presto presto e assai: la madre, ogni tanto, si fermava, guardandola mangiare, intenerita. Tutta piena ancora di sonno, Tommasina serviva in tavola, facendo presto a sciacquare le forchette in cucina, perchè fossero sempre pulite, avendo messo in tavola due bicchieri pel vino e uno solo per l’acqua. Ma la signora, tenendo con la mano esile e bianca il bicchiere, guardava il vino e non beveva: quel Marano un po’ aspro le stizziva la tosse. Si udiva, è vero, nel palazzo