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144 terno secco

rizzandosi a malapena, con la vivacità che gli consentivano le sue gambe sciancate.

— Tre, quarantadue, ottantaquattro — fece Gelsomina.

— Non esce, non esce — protestò zì Domenico.

— E perchè non esce? — domandò Federico.

— Perchè, creature mie, la cadenza di cinque, questa settimana, non sbaglia: ne usciranno due, di cadenze. Perchè il monaco di Santa Maria la Nova ha parlato dei sorci, chè la chiesa e il chiostro ne son pieni, sicchè undici, numero dei sorci, è sicuro: perchè da certi calcoli miei, il sessantanove, questa volta, è bello assai e forse, forse e senza forse, il diciotto, della settimana scorsa, si ripete, e sfoga da sopra, uscendo diciannove.

E infatuato, di sotto il banchetto dove conservava il lustro e le spazzole per lustrare, zì Domenico lo sciancato cavò certi fogli sporchi, unti, mezzo laceri: pezzi di giornali cabalistici, pezzetti di carta a forma di cuore, dove s’infittano le cifre, straccetti sparenti sotto le piramidi dei numeri: e con gli occhiali sul naso zì Domenico sfogliava febbrilmente quei foglietti sucidi e borbottava:

— Niente; niente, questo terno non esce! E poi, chi lo ha dato? Un monaco? Un cabalista? Un assistito dagli spiriti buoni? Niente affatto. Non si sa. Sto terno non esce.

— E non importa, non importa, zi Domenico: