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142 | terno secco |
di via Eccehomo, dove sta il lustrascarpe, era comparso Federico, il garzone del parrucchiere. Piccolo, con la camicia candidissima, dal goletto largamente arrovesciato, con la cravattina di seta rossa, la gabbanella nera senza falde, la scriminatura che partiva dalla fronte e finiva sulla nuca, i capelli a spazzola lievemente arricciati alle punte, Federico era l’ideale dell’eleganza, per Gelsomina Santoro, la bellissima, la instancabile lavoratrice di uncinetto. Certo don Giovanni Caccioppoli era un signore, cioè faceva da procuratore all’avvocato Solimena, al terzo piano del palazzo Ricciardi, ma aveva quarant’anni, la faccia scialba e la barbetta rada di uno che esce dall’ospedale. Ah! Gelsomina preferiva assai Federico, il parrucchiere che si dava un po’ l’aria dello sdegnoso, del don Giovanni popolano come tutti i giovanotti del suo mestiere: e ogni volta ci poteva chiacchierare, alla cantonata, o presso la porta di Santa Maria dell’Aiuto, o accanto alla bottega, era felice. Ora Federico aveva messo il piede sul banchetto del lustrino e si faceva lustrare gli stivaletti di vitellino, dallo sciancato lustrascarpe: e sogguardava Gelsomina; e Gelsomina, attratta da quelle occhiate, si avvicinò lentamente, senza lasciar di lavorare all’uncinetto, tirando un momento il filo del gomitolo che aveva in saccoccia.
— Salutiamo — disse Federico.
— Buon giorno a voi — disse Gelsomina.