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affinché non deponga o deponga il falso, come stabilito dall’art. 500 c. 4 c.p.p, già comma 5, anteriormente alle modifiche introdotte dalla L.63/2001.

Tale legge ha introdotto l’art. 377 bis c.p., il reato di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria, che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, sanziona penalmente la condotta di chi “con violenza o minaccia, o con offerta o promessa di denaro o di altra utilità, induce a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci la persona chiamata a rendere davanti alla autorità giudiziaria dichiarazioni utilizzabili in un procedimento penale, quando questa ha la facoltà di non rispondere”. Non si può ritenere dovuto a mera dimenticanza il fatto che la norma non preveda la punizione di colui che non per essere stato costretto con violenza o minaccia, ma per esser stato corrotto, abbia falsamente deposto pur avendo la facoltà di non rispondere, visto che la corruzione – anche nella sua ipotesi specifica di cui all’art. 319 ter c.p. – è reato plurisoggettivo, che prevede la punibilità di corrotto e corruttore.

Pertanto, molto semplicemente: le garanzie poste a presidio del testimone, che non deve in alcun modo essere costretto a deporre contro di sé, non valgono, come è logico, se il teste non è genuino perché pagato. Non si possono ritenere operanti le garanzie poste a presidio di un ruolo quando l’atto “garantito” è di per sé illecito e viene posto in essere per fini diversi da quelli suoi propri.

Il principio è pacifico in giurisprudenza, ed è stato innumerevoli volte applicato in relazione alle garanzie difensive di cui all’art. 103 c.p.p. Così, ad esempio, Cass. Sezione 6, sentenza n. 35656 del 16 giugno 2003: “l’art. 103 comma 5 c.p.p., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, mirando a garantire l’esercizio del diritto di difesa, ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato (nella specie, l’avvocato aveva preavvertito il suo cliente delle iniziative assunte dalle forze di polizia, fornendo consigli su come evitare la cattura e commettendo così il reato di favoreggiamento)”.

Più di recente, con la sentenza n. 31177 del 16 maggio 2006, la Sezione 2 della Corte di Cassazione ha ribadito il principio in base al quale le guarentigie previste dall’art. 103 c.p.p. non riguardano indiscriminatamente ogni avvocato, perché esse vanno ancorate all’effettivo prestatore d’opera, officiato con specifico mandato (“non si è difensori senza una nomina”), e sono poste a tutela dell’attività di difesa esercitata per il fine suo proprio, l’interesse dell’imputato o indagato; non si tratta dunque di “principi immunitari”, di “privilegi da ancien régime”, ma di tutela di un bene di rilevanza costituzionale, l’inviolabilità del diritto di difesa. Nel caso di specie, veniva dichiarata estranea alla previsione di cui all’art. 103 c.p.p. la perquisizione disposta nei confronti di un avvocato non in quanto difensore di indagato ma quale indagato egli stesso.