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38 vade retro, satana

All’aurora principiò il concerto delle campane. Le suonava Menico, facendosi aiutare durante i suoi servigii di sagrestia e di chiesa, o quando si sentiva le braccia stanche, da un ragazzotto, che per solito era uno dei due monelli trionfatori del giorno innanzi, e propriamente quello bruno, il quale della metà dei trentasette fiorini guadagnati per l’uccisione dell’orsacchiotta non aveva visto il becco di un soldo, tanto i suoi parenti erano stati lesti a mangiarli tutti ed a berli.

Era la domenica, e la messa del curato doveva principiare alle dieci. Verso le otto un contadino, che veniva dalla valle, consegnò a Menico una lettera per il suo padrone. L’indirizzo, scritto in calligrafia sottile, snella, elegante, palesava una mano di donna. Il prete pigliò la lettera, la guardò; le dita gli bruciavano, le mani gli tremavano; una visione terribilmente allettevole di donna mezza nuda gli passò nella fantasia, e gli parve di udire nelle orecchie l’eco seducente e paurosa di una voce che bisbigliasse: Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore! — Il curato voleva ad ogni costo sapere chi avesse mandata la lettera: ma il contadino doveva essere già lontano, nè Menico aveva avvertito da che parte fosse andato via. — Del resto, — osservò il vecchietto, alzando le spalle, — apra e vedrà chi scrive. — Il prete stracciò in fatti la busta e spiegò i fogli, ch’erano parecchi, con un gesto d’angoscia; ma