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Uscii con lui. Durante la via, che non era lunga, mi disse poche e rispettose parole. Io gli chiesi chi fosse il generale Hauptmann, dove avesse il suo uffizio e altre notizie, le quali mi premevano per le mie buone ragioni. Seppi come il generale del Comando stesse in Castel San Pietro.

Il portone dell’albergo rimaneva spalancato, benchè il tocco dopo mezzanotte fosse suonato da un pezzo: c’era un grande andirivieni di militari e di borghesi. Ringraziai l’ufficiale, che puzzava di maledetto tabacco, e m’accomodai alla meglio sui cuscini della mia carrozza, posta in un angolo del cortile. Stracca morta com’ero, m’assopii tosto; ma mi destò in sussulto il picchiare forte di una mano sullo sportello. La voce rauca e volgare del Boemo ripeteva:

— Sono io, signora contessa, io che vorrei dirle, col debito ossequio, una sola parola. —

Abbassai il cristallo, e l’ufficiale mi porse qualcosa: era il mio portamonete, dimenticato sulla tavola della bottega da caffè, mentre stavo per pagare e successe il tafferuglio. Lo avevano trovato e riportato i tre compagni di lui, il quale disse con gravità solenne:

— Non manca nè una carta, nè un soldo.

— Ma le carte sono state lette? — e pensavo alla lettera di Remigio, l’unica serbata da me e che non avrei voluto per cosa al mondo vedermi uscire di mano.