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sì, no; intanto un certo movimento insieme febbrile e misterioso si propagava dai militari ai civili, i treni della ferrovia principiavano a ritardare, a portare giù nuovi soldati e cavalli e carriaggi e cannoni, mentre i giornali non ismettevano di negare pur l’ombra dell’armamento. Io, senza badare agli occhi miei, credevo ai giornali, tanto il pensiero di una guerra mi spaventava. Temevo per la vita dell’amante; ma temevo anche più il distacco lungo, inevitabile, che avrebbe dovuto seguire tra noi due. A Remigio, in fatti, l’ultimo dì di marzo fu ordinato di recarsi a Verona. Ottenne, innanzi di partire, due giorni di permesso, che passammo insieme, senza lasciarci mai un minuto, nella misera camera di un’osteria sul laghetto di Cavedine; ed egli mi giurava di venire presto a vedermi, ed io gli giuravo di andare a Verona quando non avesse potuto muoversi di lì. Nel dargli l’ultimo abbraccio gli gettai nella tasca un borsellino con cinquanta marenghi.

Il conte, ritornando dalla campagna, mi trovò, dieci o dodici giorni dopo la partenza di Remigio, smagrita e pallida. Soffrivo in realtà moltissimo. Di quando in quando sentivo delle accensioni alla testa e mi venivano dei capogiri, tanto che tre o quattro volte, barcollando, dovetti appoggiarmi alla parete o ad un mobile per non cadere. I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle: