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fanciulla, gli occhi grandi e inquieti di colore celeste: in tutto il volto una espressione ora dolce, ora violenta, ma di una violenza o dolcezza mitigata dai segni di un’ironia continua, quasi crudele.

La testa piantata superbamente sul collo robusto; le spalle non erano quadre e massiccie, ma scendevano giù con grazia; il corpo muscoloso, stretto nella divisa bianca dell’ufficiale austriaco, s’indovinava tutto, e rammentava le statue romane dei gladiatori.

Questo tenente di linea, il quale aveva solo ventiquattro anni, due più di me, era riuscito a divorarsi la ricca sostanza paterna, e continuando sempre a giuocare, a pagar donne, a scialarla da signore, nessuno oramai sapeva come vivesse; ma nessuno lo vinceva nel nuoto, nella ginnastica, nella forza del braccio. Non aveva mai avuto occasione di trovarsi in guerra; non amava i duelli, anzi due ufficialetti mi raccontarono una sera, che, piuttosto che battersi, aveva più volte ingoiato atrocissimi insulti. Forte, bello, perverso, vile, mi piacque. Non glielo lasciavo intendere, perchè mi compiacevo nell’irritare e tormentare quell’Ercole.

Venezia, che non avevo mai vista e che avevo tanto desiderato di vedere, mi parlava più ai sensi che all’anima; i suoi monumenti, dei quali non conoscevo la storia e non intendevo la bellezza, m’importavano meno del-