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220 il demonio muto

rista, non è vero? Ho le mie ambizioncelle anch’io, caro nipote. Quando andavo sotto il balcone della Menica, settant’anni addietro, e suonavo dolce dolce un minuetto del Monteverde, la gente stava ad ascoltarmi a bocca aperta, e il cuore batteva forte alla mia fidanzata, che mi scoccava dalle imposte socchiuse delle occhiate assassine.

Adesso ancora mi diverto a cercare nelle antiche melodie le antiche memorie. Vado nella cappella del palazzo, che è, come tu sai, all’angolo della galleria, ed ha l’altare tutto di legno ad angeli paffuti e a cartocci barocchi, i quali mostrano ne’ luoghi più riposti i segni delle scomparse dorature: e vi sono i vetri a figure colorate, qua e là rotti e restaurati con pezzi di vetri bianchi, sicchè ad un Santo manca la testa, all’altro un braccio o una gamba: e nonostante la chiesetta ha qualcosa di severo e di sacro nella sua mezza oscurità. Non c’è neanche un quadro; le pareti son nude; solo da una parte si vede appesa ad un chiodo la mia chitarra, che è quasi una reliquia. Stacco lo strumento, e, salendo dallo scalone interno, quello scalone lungo e diritto, che ha i suoi dugento gradini tutti sconnessi, vado pian piano nel giardino alto, da cui si domina il villaggio e la valle, e mi metto a sedere sui graticci, i quali, servendo solo per i bachi da seta, restano quasi tutto l’anno accatastati nel padiglione delle feste. Questo magazzino, gioia dei topi e dei ragni,