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210 il demonio muto

inamidata, quando si sveglia e, alzando il capo, fissa a un tratto gli occhi ne’ miei, e mi chiama: — Carlo! — mi fa ribollire nelle vene un sangue da giovinotto.

Per conto tuo non hai bisogno di nulla. Sei solo, agiato e non avido. Ma sai che, sebbene io non ti veda troppo di rado in queste montagne, pure ho sempre sentito un grande affetto per te, e lo meriti; e mi rincrescerebbe che, quando sarò volato via da questa terra, tu non avessi nessuna occasione di rammentarti dell’antico parente. Da parecchi giorni vado dunque intorno in questa casa mezzo diroccata per trovare un oggetto che possa non dispiacerti. Ma ogni cosa è logora, sbeccucciata, sbiadita, sconnessa: corrisponde insomma ai capelli canuti ed alle rughe dei padroni. Da trent’anni non sono neanche più andato a Brescia: si può dire ch’io non abbia più comperato nulla. Le cose più belle in questo polveroso palazzo, dove le finestre mostrano ancora i loro vetri tondi, ondulati dal centro alla periferia, come fa un sasso quando si butta nell’acqua, dove i pavimenti paiono un mare in burrasca, sono le cose più vecchie. Sai che ho quattro di quelle casse di legno intagliato, che si mettevano a’ piedi del letto degli sposi, tutte a putti che giuocano, ad amorini alati, a ninfe nude; e vi stanno gli antichi stemmi della nostra famiglia. Poi ho dei seggioloni enormi a grossi fogliami nei bracciuoli e nella spalliera, che punzecchiano