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alle salmodie; e queste e quello asciugano la gola.

Mentre Matilde entrava, portavano la minestra. Eravamo allegri, mangiavamo, discorrevamo della nostra gioia, di cento cose. Di tratto in tratto per altro si sospirava, si taceva un pezzetto e ci si stringeva le mani.

— Due ore e mezzo son già passate! — mormorò Matilde; ma poi subito: — E via! Ce ne restano dodici e mezzo — e tornò tutta gaia.


Dopo il desinare ci si avviò lentamente al Santuario, girando intorno alla cittaduzza. Cominciava a imbrunire. I raggi della luna vincevano già la luce del crepuscolo quando entrammo nel grande viale, che, lungo un miglio, fiancheggiato da antichi pini, mena dritto alla chiesa. La strada larghissima era, mezz’ora dopo, regolarmente listata dalle ombre nere degli alberi, i quali, neri anch’essi, andavano rimpicciolendosi via via alla vista e convergendo in angolo sotto la cupola del tempio, che a quella distanza, involta nei vapori della notte, pareva enorme.

Spiccavano dall’una parte e dall’altra a brevi intervalli, candidi sulla tinta fosca del terreno, i sedili di marmo bianco. Matilde, poggiata la mano sulla mia spalla, mentre io la circondavo col braccio alla cintura, camminava tacendo. Io ero immerso in una contemplazione indeterminata: il mio cuore si scioglieva, si evaporava nella beatitudine: sentivo come le mo-