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quattr’ore al lido 183

e sul cappello, parlava allegra, faceva mille graziose smorfiette col viso strano e piacente. L’altra alta di statura, snella, flessuosa, con il collo un po’ lungo, come le Diane antiche, il volto regolare, delicato, d’un rosa pallido, gli occhi di un fine azzurro marino, le mani troppo affilate, ma nobilissime e dello stesso candore di quel po’ di pelle, che il modesto squarcio dell’abito lasciava vedere sotto la gola. Si alzava di tratto in tratto per correre dietro ad un bambino di due anni, biondo, paffuto, il quale alla sua volta correva dietro ad un grosso cane nero — un bel cane, che nuotava meglio di me, e che mentre facevo il mio bagno in alto mare, era venuto a salutarmi con molta grazia. La signora vestiva di seta colore perlino, col cappello a larghe tese della medesima stoffa; e mi ricordo che il tono neutro e chiarissimo faceva, come dicono i pittori, un buco sul cielo, pareva cioè più lontano del fondo. Ma da questo errore di tavolozza veniva nella gentile persona un non so che di aereo, un non so che di ammaliante. Non era una donna: era una fata. E il putto continuava a scapparle ad ogni momento, e voleva vedere tutto, toccare tutto; sghignazzava di un riso da angioletto, pestava i piedi e batteva le mani; si metteva a sedere sulle ginocchia della gente, e la mamma andava allora a pigliarlo, dicendogli qualche parola con una severità tutta soave, e carezzandogli con la mano sottile i lunghi ricci