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182 quattr’ore al lido

l’ora non si può descrivere. Tutto si fonde in un accordo pieno e gaio, profondo e vago: arpa eolia dell’infinito. Il sole baciava quasi l’orizzonte, e scendeva dalla parte opposta al mare, dietro al Lido, dietro alla laguna, dietro a Venezia. I suoi raggi orizzontali non toccavano più la superficie della marina, che era diventata scura e azzurrastra; ma andavano a ferire dritti due vele lontane di due barche da pescatori, facendole brillare d’un colore giallo dorato, fiammelle fantastiche. Il piano immenso del mare nudo; non uno scoglio, non una lingua di terra per quanto l’occhio cercasse: pareva di navigare sopra un vascello fatato nell’Oceano a mille miglia da terra. E le due vele splendevano; e il cielo pigliava una tinta brunetta ancora cilestra, qua e là rallegrata da qualche nuvola mezza in ombra e mezza in luce, la quale vagava lenta e a poco a poco s’impiccoliva e svaniva.

L’appetito mi faceva parere squisite le vivande, e la salsedine, che mi restava in bocca, dava al vino una dolcezza inebbriante. Il ventre si confortava, e gli occhi s’incantavano; e questi e quello mi riempivano l’anima di una felicità solenne, la quale porta il riso sulle labbra e le lagrime sul ciglio. V’era poca gente. La banda cominciò a suonare. A sinistra, intorno ad una tavola, stava un gruppo d’Inglesi. Una delle signore, vestita di seta cruda con grandi nastri rossi sull’abito