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santuario | 165 |
Sentivo offuscarmi il cervello, come se il vecchio vino bevuto alla cena mi portasse di colpo tutti i suoi fumi alla testa. Non riescivo a liberarmi dal peso e dall’abbraccio di lei, che mi fissava sempre con il suo sguardo di donna innamorata in un mondo vano di spettri, e nella quale i segni della passione terrena prendevano l’aspetto innocente e agghiacciante di una fatalità tutta inconscia. Ripeteva: — Vieni a scaldarmi, vieni, — e m’obbligava a porle una mano sul petto e a baciarla.
Dagli alari cadde sul pavimento un tizzone acceso, che rotolò fino ai piedi della donna. La sollevai di sbalzo e mi precipitai per rimettere con le molle nel focolare il legno ardente, profittando poi subito della confusione per fuggire nella gran sala attigua, senza che la giovane se n’avvedesse. Ascoltai all’uscio: non si sentiva più nulla. Dopo qualche minuto, inquieto di quello stesso silenzio, socchiudendo l’imposta, guardai nella camera. La bionda stava di nuovo immobile rimpetto al quadro, contemplandolo. Non parlava, non sorrideva. Finalmente, sottovoce, ma con accento di fiducia sublime, ripetè più volte: — Tornerò domani, tornerò domani — , e, ripreso il lume, senza guardare intorno, lenta, grave, se n’andò via dall’uscio dond’era entrata.