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148 santuario

E andava su e giù per la stanza con le sue gambe interminabili, facendo svolazzare la veste; poi si tornava a piantare ritto innanzi al camino, e allora l’ombra oscillante de’ suoi stinchi, proiettata dalla fiamma, si distendeva sul pavimento, e il torso si sbatacchiava sulla parete opposta, e il collo e il capo tracciavano la loro forma allungata sul soffitto, sicchè la figura nera appariva spezzata in tre lati, e si muoveva ora di qua ora di là, come un pulcinella di legno dislogato da un ragazzo impaziente.

Alla fine il rettore lesse la lettera di presentazione, e gli Oh! e gli Ah! non terminavano più.

— Oh, ah, il figliuolo del mio caro Gigi! È proprio lei? Sa che da trent’anni... che cosa dico? da quarant’anni... sicuro, fu nel... non mi rammento bene... ma in somma sono passati quarant’anni almeno dacchè vidi per l’ultima volta il mio buon Gigi. E non sapevo che avesse preso moglie, ed ignoravo che avesse un rampollo così grande e grosso, scusi, come lei. È succeduto quel che succede sempre quando ci si vuol bene davvero: non ci si scrive mai. Ma, lo creda, pensavo sempre all’amico del Liceo e del Ginnasio, e chiedevo a me stesso: Gigi sarà vivo, sarà sano? Egli ignora forse ch’io sono canonico, ed io ignoro... A proposito, a che professione s’è mai dato suo padre? Mi pareva che avesse poca voglia di sgobbare a quei tempi. E dove