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sulle alture. Di mano in mano che si andava in su, il fango scompariva per lasciare posto anche sulla strada alla neve, solcata da poche linee profonde; e, un’ora prima di giungere al Santuario, i due cavalli, sbuffando, sudando, tendendo faticosamente i muscoli, cacciando le gambe nella neve fino alle ginocchia, riuscivano a malapena a tirare il legnetto, di cui le ruote si sprofondavano quasi fino all’asse.

La temperatura, ch’era stata assai mite, essendosi fatta freddissima, principiavo a sentirmi i piedi gelati e le mani intirizzite. Battevo i denti quando, verso le sette, al buio, si giunse nel primo cortile dell’ospizio. Le gradinate magnifiche erano scomparse; qualche pezzo di balaustro, le cimase, i vasi barocchi, non si vedeva altro. Le immense ali dell’edificio s’alzavano tetre, e gli archi aperti del vasto atrio, in quella luce notturna della neve, azzurrognola e pallidissima, sembravano l’ingresso d’un cimitero fantastico.

Il vento cacciava sotto all’atrio un pulviscolo ghiacciato, sottile, turbinante, che si faceva strada fra il collo e la pistagna della pelliccia, fra le maniche e i polsi. Un uomo mi venne incontro con la lanterna; e mentre io gli chiedevo del signor rettore dell’ospizio, e lo pregavo di condurmi subito al fuoco, ecco che s’avanza a un tratto fra lui e me una testina bionda di donna: e le sue labbra sorridevano, ma fissò gli occhi ne’ miei con