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cose sue, come dice egli stesso del suo poemetto della Guerra Civile è caduto in voci forse allora comuni nel discorso domestico; e non perciò meno belle, benchè non per anco depositate negli scritti de’ suoi purissimi antecessori. Aggiungasi a ciò che siccome a Napoli ove Nerone principalmente esercitava le sue lascivie, stabilisce Petronio la scena del suo romanzo, e v’introduce persone abbiette e viziose che parlano, così usa talvolta parole del paese, e degne di cotall interlocutori, siccome anche il Burmanno ha diligentemente avvertito. Oltre di che egli ha frasi e maniere sue proprie, come le hanno i grandi scrittori; e in quel modo che Pollione tacciò Tito Livio di padovaneria, e Statilio Massimo accusò Cicerone di alcune singolarità nella lingua, così puossi incolpare Petronio di certa venustà e trascuratezza, che forse amabili dovean riuscire a’ suoi tempi, e che a noi sì remoti, e sì imbarazzati per bene intenderlo, può parere difetto, come difetto e scempiaggini veggo sembrare a taluni non abbastanza nella vaghissima italiana favella versati le maniere e frasi dei nostri scrittori Fiorentini dall’età del Boccaccio sino a tutto il buon secolo di Leon decimo.
Per altro il Burmanno, che già vedemmo riconoscere in Petronio uno scrittore che deve aver veduto gli ultimi anni di Cesare Augusto, non lascia di riconoscerlo per tale, anche quanto alla lingua ed allo stile. Anzi a coloro, che come l’Ignarra da alcune voci e modi petroniani usati ne’ tempi posteriori, ed anche ne’ secoli bassi, voglion dedurre doversi questo scrittore quasi al medio evo trasportare, rivolge egli arditamente il loro argomento, e dice che appunto negli scrittori de’ bassi tempi trovansi cotai voci e maniere, perchè leggevano essi Petronio più volentieri degli altri antichi, e aggiunge che per l’inclinazione degli uomini alle lascivie ed agli scherzi erasi questo autore reso famigliare ai letterati d’allora. E siccome que’ letterati (segue il Burmanno)