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222 | di petronio |
sudasse lui nella scuola; e, giovinotto, mi disse, poichè discorri fuor del comune, e (rara cosa!) ami il retto giudizio, t’introdurrò nell’arte secreta. In questi esercizj non è de’ maestri la colpa, costretti ch’e’ sono ad impazzare co’ pazzi. Si provino a non andar a versi degli scolari; toccherà loro, come disse già Cicerone, insegnare alle panche. Come gli adulatori provetti, ucceltando le cene de’ ricchi, nulla più mirano che a dar nel genio della brigata, nè d’altra maniera otterrebbero il loro intento che tendendo, quasi dissi, lacciuoli agli orecchi; similmente chi insegna eloquenza, se all’uso de’ pescatori non inescasse gli ami di ciò che meglio appaticono i pesciatelli, se ne starìa sullo scoglio a desiderare la preda.
Che monta? Dovrebbesi attaccarla ai parenti, che non vogliono e’ loro figliuoli sieno ammaestrati severamente. Sulle prime assoggettano all’ambizione, come tutto, le proprie speranze; di poi, impazienti di venirne agli effetti, cacciano al foro oratori in erba, e come che confessino eglino stessi nulla avervi più grande dell’eloquenza, lasciano professarla a’ fanciulli col guscio in capo. Che se sofferissero si andasse passo passo, acciocchè i giovanetti studiosi con severe letture si temperassero, a’ precetti della sapienza gli animi componessero, stornassero con inesorabile stilo il già scritto, a lungo udissero ciò ch’indi imitare, nulla avendo a magnifico di quanto allucina i ragazzi, l’alta orazione ricovererebbe la primitiva importanza. Ora i fanciulli si danno bel tempo alla scuola, i giovani sono beffati nel foro; e, ciò ch’è peggio, nessuno, invecchiato, vuol confessare di non aver nulla appreso.